La
liquidità dei media
Leonardo Chiariglione, CEDEO.net
Temo che qualcuno dell'uditorio vorrà dare alla parola liquidità un’interpretazione alquanto diversa da quella che verrà data in questa memoria. Ma penso che in fondo non sia poi un male se in una giornata destinata allo studio della “convergenza” si tenga anche conto della necessità di far convergere anche i vocabolari. D’altra parte mi propongo di dimostrare che la liquidità dei media sia una condizione necessaria per raggiungere l’altra “liquidità”...
Fino a molti anni fa – circa 10 – il business dei media rispondeva a delle regole ben precise. Spingere i contenuti attraverso la catena del valore era costoso ed i vari attori avevano molte opportunità per sfruttare a proprio beneficio la complessità del livello fisico delle tecnologie analogiche erigendo vari steccati a protezione del proprio business.
Oggi ci ritroviamo quindi con una quantità di catene del valore – libri, riviste, musica, radio, film, televisione, ecc. la cui costruzione ha richiesto decenni se non secoli, il più svariato assortimento di attori delle catene del valore con la comune caratteristica di essere estremamente onerose da gestire. Il grande pregio di queste catene del valore era però che una volta che si avesse assolto all’obbligo di remunerare gli attori suddetti chiunque poteva accedere ai contenuti al termine della catena.
La faccio semplice perché il diavolo, come dicono gli abitanti di Albione che di queste cose s’intendono, sta nei dettagli. Ma in linea generale quanto ho appena detto è sostanzialmente vero, perché è stato realizzaro in aree sufficientemente grandi ed omogenee.
Poi – 10 anni fa – vennero le tecniche numeriche. Non che da subito abbiano poi fatto tutta quella differenza. Il DVD – di cui va riconosciuto il grande successo commerciale – non è altro che l’utilizzazione ingegnosa di una nuova tecnologia per fare cose come si facevano – con altri media ed altre tecnologie – cent’anni prima. La pay TV da satellite è invece un’utilizzazione, alquanto perversa, della nuova tecnologia per creare un nuovo tipo di steccato. Ma la perversione non paga: il business della pay TV è inondato di rosso e la sostenibilità del nero, ammesso che ci sia, è tutta da discutere.
Poi, poco tempo dopo, venne la fine del mondo, voglio dire, la fine di quel mondo di contenuti analogici variamente protetti da steccati lungo la catena del valore di cui ho parlato prima. L’utilizzazione delle tecnologie numeriche a livello di massa, la possibilità di trasmettere i contenuti in forma di bit sulle reti numeriche utilizzando i più svariati protocolli di distribuzione, ed infine la possibilità di avere apparati di riproduzione molto a buon mercato o programmabili ha creato una rivoluzione i cui segni sono tutt’ora di fronte a noi. Dirò solo due nomi: MP3 e DivX e sono orgoglioso di citarli perché essi sono stati abilitati da due tecnologie uscite dal gruppo MPEG.
Naturalmente non mi troverete disposto a condonare il saccheggio di beni dell’intelletto che alcuni operatori privi di scrupolo hanno sistematicamente condotto in questi ultimi anni. Ricordo però quello che diceva, in modo forse crudo ma efficace, il compianto Fabrizio de André
dai
diamanti non nasce niente
dal letame
nascono i fior
per valorizzare il fiore che ne è nato e cioè la prova dell’esistenza di modi per appagare il bisogno fondamentale dell’uomo di avere contenuti “liquidi” e cioè di poter trovare quello che vuole, goderselo dove e quando vuole e condividerlo con chi vuole. Tutte cose che il mondo di prima – quello analogico – non è mai stato in grado di dare.
Ragione vorrebbe che questo "fiore" avesse motivato una quantità di imprenditori in grado di coniugare quello che dovrebbe essere il loro motto e cioè “soddisfare il cliente” con quello che dovrebbe essere la loro missione e cioè “massimizzare i profitti”.
Caso vuole che così non sia. Invece quello a cui assistiamo sono tre ostinazioni. L'ostinata ricerca del castigo da parte degli "aventi diritto" nei confronti degli imprednitori senza scrupoli di cui sopra, senza però curarsi di creare le condizioni perché al “cliente” venga dato un servizio equivalente, ma legittimo; l’ostinato inseguimento del miraggio del controllo totale dei clienti da parte degli operatori che è l'esatta antitesi di quello che la rivoluzione dei media numerici ci ha mostrato gli utenti non voglione ed infine l'ostinato rifiuto dell'uso Digital Rights Management da parte delle organizzazioni dei consumatori e dei diritti civili.
La Commissione Europea, che non perde occasione di alzare la bandiera dell'Agenda di Lisbona per il 2010 e che dovrebbe quindi essere in prima linea nell’additare nuove direzioni di sviluppo, è invece diventata cassa di risonanza degli interessi costituiti più retrogradi. Dietro la facciata della "neutralità nel confronto degli standard" si cela il supporto di uno specifico modello di business. Di questo passo rischiamo di ritornare alla preistoria dei media. Prepariamoci pure al tempo in cui ricorderemo con nostalgia quanto erano belli e liberi i media analogici. E rassegnamoci pure ad un mondo dove non ci sarà proprio più niente, né per chi crea, né per chi consuma.
Lo so che in questa prima decade del 3° millennio la filosofia dominante dell'imprenditore è di avere uno share del 95% in un business di 1 miliardo di €. Sono anche pronto a concedere che forse questa è la filosofia giusta per chi opera nel mercato delle lavatrici o dei compressori ad aria. Ma per chi vuole operare nel mercato dei media questa filosofia porta ad avere uno share del 95% in un mercato da 1 milione di € dove c’è rosso garantito per tutti. Io penso sia preferibile puntare ad avere uno share del 5% in un mercato infinito da 1, 10, 100, 1000 miliardi di €, dove la componente media rimarrà 1 miliardo di € mentre i veri profitti si faranno altrove.
Sono questi forse sogni? È mai possibile che si riesca a coniugare la totale soddisfazione del cliente con la creazione di un business dei media redditizio? È mai possibile che si riesca a iniettare nel business dei media quel dinamismo che vediamo srotolarsi di fronte a noi con l’etichetta di Web 2.0 dove ogni giorno vediamo coniugate l’inventiva del tecnologo con la sagacia dell’imprenditore, invece di vedere riciclati modelli di business che sarebbero andati stretti ai tempi di Gutenberg?
La domanda è difficile e non penso di riuscire ad elaborare una risposta completa e soddisfacente nei pochi minuti che mi sono stati assegnati. Ma due elementi di risposta ce l’ho. Il primo riguarda il business dell'imprenditore. Quello intelligente ha un modello di business capace di attrarre clienti, mentre quello inetto perde il suo tempo ad erigere steccati che li imprigionano - e li alienano.
Il secondo riguarda la tecnologia che deve essere di supporto alla strategia di attrazione, non di imprigionamento dei clienti. Quindi la tecnologia deve dare massima flessibilità per una gestione del ciclo di vita dei contenuti ed eventualmente della loro protezione sulla catena del valore, deve essere in grado di dare libero sfogo alla creazione di una quantità illimitata di nuovi modelli di business (i cosiddetti digital media business models), deve permettere di realizzare quelle cose che da sempre tutti hanno fatto con i media (i cosiddetti traditional rights and usages).
Questa tecnologia ha un nome: “DRM interoperabile” ed una paternità: Digital Media Project che ne sviluppa le specifiche. Una prima versione di queste, ancora di applicabilità limitata (portable device), è stata approvata 8 mesi fa ma la versione finale sarà approvata fra meno di due mesi alla vigilia dell’apertura delle Olimpiadi invernali a Torino. L’approvazione non sarà purtroppo a Torino perché il giorno 9 febbraio la città sarà off limitis per chi non ha a che fare con la neve, ma al Castello di San Giuseppe vicino ad Ivrea.
Vi invito a vedere il futuro dei media con con nuovi occhi andando a http://www.dmpf.org/.